Arkona – “Kob'” (2023)

Artist: Arkona
Title: Kob’
Label: Napalm Records
Year: 2023
Genre: Black/Folk Metal
Country: Russia

Tracklist:
1. “Izrechenie – Nachalo”
2. “Kob’”
3. “Ydi”
4. “Ugasaya”
5. “Mor”
6. “Na Zakate Bagrovogo Solntsa”
7. “Razryvaya Plot’ Ot Bezyskhodnosti Bytiya”
8. “Izrechenie – Iskhod”

“Look at yourself, human! For there is nothing more beautiful than you. Lies – that’s your name, and hypocrisy – that’s your deeds. Everything you touch will be desecrated: the living and the dead, trees and stones of planets; air, animals and fish. Everything will be poisoned, everything will be distorted…”

Una magia sacrilega, o più fedelmente una stregoneria nera come il carbone, una divinazione che mostra attraverso una nube di sangue, frattaglie come fulmini ed oscurità nelle interiora quel che sarà, nelle immagini incontrovertibili e ben poco metaforiche di ciò che già è: una catabasi, un ritorno all’oltretomba dell’esistenza durante il graduale sprofondare dell’umanità nel pantano delle proprie fetide azioni di bontà; nell’abisso delle proprie scelte spietatamente errate attraverso l’annientamento inconsapevolmente ingenuo, incurantemente puro, filantropico e più totale della tanto sacra vita nello sforzo di renderla sempre migliore, sempre più avanzata a scapito della sua stessa sopravvivenza sull’altare della possibilità. Un gigantesco cul de sac – e va forse da sé lo sia, il buio fondo cieco di un vaso fragile, un infinito vicolo senza possibilità di uscita alla sua mancante campitura: un veicolo incoscientemente motorizzato senza sterzo né retromarcia, senza freni per decelerare e privo di un raziocinio per trovare una possibile via d’uscita da quell’imbuto le cui pareti si stringono sempre più verso una cavità di tenebra alla fine del tunnel.

Il logo della band

Una grande fortuna tuttavia ironica, beffarda, nel dipartito istinto di sopravvivenza insito in una qualche parvenza di lungimiranza, continuamente e per troppo tempo sfidata con le più folli guerre fratricide, con malattia fuori controllo e poteri invisibili ad architettarle tutte quante da lontano; puliti dal canto loro e persino tacitamente apprezzati nell’opera di sterminio mentre quell’oscurità risultante prende una forma invero familiare: l’ombra dell’uomo che, primo attore della più grande e tragicomica delle commedie mal riuscite, ne ha imperterrito disperso sul suo pianeta natio la sagoma; il malessere che l’essere umano ha insomma pazientemente coltivato per sé stesso e nessun altro in varie transizioni sviluppantesi complesse come gli effetti nefari di un cancro, su più livelli intrecciati tra loro, messe in scena attraverso gli eventi del nostro tempo e di quello di coloro che ci hanno preceduti portandoci per mano, se vogliamo, laddove siamo. Vale a dire, in questo 2023 immediatamente preceduto (o forse più verosimilmente abbracciato) dall’eufemisticamente interessante lustro che, là fuori, ha separato l’operato creativo degli Arkona hic et nunc dalla pubblicazione di un tassello discografico tanto importante e internamente divisivo come “Khram”: non v’è nemmeno bisogno di fare un recap, di provare a tratteggiare gli accadimenti più salienti, i più ancora sanguinolenti o disastrosi in quella grande storia dell’umanità perché sono gli stessi russi a farlo a modo loro e con infinito dolore nel proprio disco più cupo, impegnativo e per moltissimi versi difficile di sempre. Laddove l’opera già a dir poco monumentale ed ostica, evolutivamente onnicomprensiva del 2018 sembrava infatti mostrare la band di Masha Arkhipova, Sergey Lazar e Ruslan Kniaz (nel frattempo privati dell’eclettismo ritmico di Andrei Ischenko, ma immediatamente ritrovato nelle temporanee prodezze di Kévin Paradis) arrivata al suo punto di più inarrivabile perizia compositiva già dopo il raffinatissimo, grandiosamente atmosferico “Yav”, un fiammante e maledetto “Kob’” si pone quale fratello estremamente riflessivo, introspettivo, più negativo, plumbeo e colossale non soltanto nell’ormai solito timing a dir poco impegnativo a cui la band moscovita sottopone l’ascoltatore come dazio alla fruizione delle proprie opere da quasi venti anni a questa parte (ovvero, quantomeno dallo snodo tra “Vo Slavu Velikim!” e “Ot Serdtsa K Nebu”), bensì nell’assolutamente enorme quantità di materiale, d’idee e di dettagli microscopici a comporlo pazientemente come uno spaventoso mosaico.

La band

Avvolto in un mantello nero consacrato nell’esatto cuore di quel tempio aperto cinque anni or sono, esacerbandone da subito gli aspetti più oscuri e criptici, l’operato aggiornato del gruppo prende ideologicamente, atmosfericamente e musicalmente le mosse nei due (autodefiniti) enunciati “Izrechenie” (ovvero “Nachalo” e “Iskhold”), mentre questo grande, decadente bouquet di fresche emozioni negative, collage di frammenti di angustia e morte, di autodistruzione innescata e cantata con un lutto inedito si svela lungo un filo che sembra percorrerlo come un sussurro sempre più insistente e mostruoso lungo le sue sei tappe. Dal manifesto “Kob’” a “Razryvaya Plot’ Ot Bezyskhodnosti Bytiya”, questo invisibile collier di ossa si stringe sempre più attorno ad una gola scheletrica fino a srangolare con violenza inaudita (si pensi ai momenti più mozzafiato di “Ugasaya” e dell’altrimenti ultraterrena “Ydi”, contraltari di una coraggiosissima e sempre minore propensione all’utilizzo dei distintivi fiati acustici di Vladimir Reshetnikov), deturpante il volto alla sua estremità e rendendolo irriconoscibile, putrido allo sguardo d’uomo dopo il ciclo completato nel susseguirsi platonico di cinque diverse maschere temporali dagli universali occhi vitrei; un sussurro, similmente, di un profetico incantesimo di divinazione che viene compreso con sgomento e cordoglio crescente lungo lo svolgersi di questa impresa dal valore cinematografico ancor prima che semplicemente musicale – in una serie d’immagini potentissime ancor prima che brani, quali sono quelle che presentano ad esempio “Mor” e la title-track con i loro inchini pagani alle derive più ipnotiche, organiche eppure magnetiche e gelidamente mesmeriche del Black Metal, sebbene gli Arkona le affrontino sempre con la solita, slava concretezza d’intenti che si fa eternamente più grande della vita, della volontà, persino dell’orgoglio di un disco evidentemente -e, si concede, affatto giustamente- tronfio e conscio del suo gigantesco potenziale: vale più esplicitamente a dirsi, del suo superamento di ogni parametro ad oggi messo in atto dai russi, da “Slovo” in avanti.
Un universo sempre più ricco di stimoli ed elementi convergenti in grandissimi, titanici brani che generalmente ripartono dagli exploit organizzativi e d’arrangiamento di “Tseluya Zhizn’” riproponendosi però condensati come avviene negli oggi più contenuti dodici minuti di una già citata “Ydi”, esempio calzante in cui lo sviluppo ferino e disumano di musica e voce (dove la soprannominata Scream raggiunge livelli difficilmente attribuibili a forma conosciuta, ricorrendo sempre più sporadicamente e soltanto nei momenti di maggiore tensione e sventura alle litanie ripulite di animalesco istinto ferale, mentre il chitarrista dei connazionali Thanatomass -freschi di “Hades”– porta in omaggio il suo malsano tocco solistico slayeriano) si scioglie nella soprannaturale, spirituale e corale spinta verso l’alto e l’intoccabile in un trionfo d’inquietanti ugole candide come il divino, spettrali e maestose voci trasfiguratamente bianche che cantano con distacco angelico un inno alla meritata fine.
L’abisso è giunto a portata di dito, la carne viene strappata dalla disperazione dell’essere: progressività inafferrabile e miracolo eteno si fondono in episodi ad oggi unici come la complessa, ipnogena e carismatica, persino fortemente atipica “Na Zakate Bagrovogo Solntsa” (in più d’un momento quasi un omaggio ai Moonsorrow di “Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa”); nelle lacrime di una madre colpevole distillate negli ultimi sette minuti abbondanti che, tanto omnicomprensivi nella loro relativa e virulenta, rabbiosissima brevità, portano ad una conclusione prima del fulmineo commiato, l’esodo che vuole essere forse un insegnamento -in possibilità- ma che come strisciante in acque avvelenate che non portano da nessuna parte è conscio invece di non poter più essere di grande aiuto per quella salvezza sfumata fin dalla prima parola pronunciata in questa trascendente magia di sperimentazione interiore che è “Kob’”: totalmente invisibile all’occhio del vedente, così come il suo più autentico potere resta sigillato nella bocca di un cieco in corsa verso il nulla che lo insegue prima di essere travolto dala marea di un deserto il cui unico regalo è il silenzio, inchiostro essiccato della fugacità riflessa nel prisma accecante degli anni.

Volendo dunque tirare delle complesse e forse ancora acerbe fila, in un discorso che, al netto di un lavoro simile, procederà senz’altro con lo svilupparsi in sé e da sé negli anni di ascolti a venire, si può comunque affermare con un certo grado di sicurezza come il processo di pesante annerimento giunto ad uno snodo con “Khram” qui arrivi forse ad una sua conclusione. Gli Arkona sono più oscuri e profondi, più ferali e fondamentalmente Black Metal che mai, forse persino al loro squisito limite: sentimenti di morte e tetro misticismo permeano le fibre di ogni brano al di là di ogni mero -e comunque, come visto, per nulla trascurabile- stilismo, creando qualcosa che non soltanto era difficile da prevedere persino dagli ormai rinomatamente raffinatissimi autori di “Yav” e “Khram”, ma che rappresenta un altro irripetibile punto di rottura e congiunzione insieme; l’ormai evidente impossibilità di farsi voce con quel linguaggio Folk quasi totalmente abbandonato in estetica ma sempre più forte in spirituale poetica che permette con pochissimi e selezionati tocchi, non privi di uno scheletro di musica popolar-folklorica inestricabilmente radicalizzato, di smembrare ogni suggerimento di un possibile ritorno alla spensieratezza, se mai vi è stata. Nessun agnus dei, qui tollis peccata mundi; ma una prospettiva che, come uno scialle nero, avvolge il tempo senza inizio né fine; che silenziosa attraversa i secoli facendosi moderna. Come una furia pagana inarrestabile che urla nell’oscurità oltre l’orizzonte visibile perforando il cielo di angoscia, amarezza e affanno mentre la terra s’addormenta inzuppata di sangue fresco, fondendosi con l’ultimo tramonto del sole cremisi, inarrestabile alla vista orripilante del più grande e terribile dei mali sulla Terra. Una stregoneria tanto finemente ordita; una maledizione di negatività dalle fattezze perfette, le cui braccia di carne sono quelle del più vero degli inferni, arrestabile solo dall’azione di sé stesso: l’uomo.

Perire tra le ceneri di una guerra nucleare: questa è la tua libertà adesso.

Matteo “Theo” Damiani

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